L'artista Luciano Buso

Presentazione a cura di Paolo Rizzi e Bino Rebellato tratta dal volume monografico del 1993

Un casolare d'inverno, sul declivio di un colle. E' avvolto nella neve. Un sole pallido lo illumina di lato, mentre i vapori stanno diradandosi nel cielo. Ecco i filari degli alberelli rinsecchiti che danno profondità alla scena. La luce riscalda il biancore della neve con riflessi tra rosati e cilestrini. Tutto diventa trepido e come soffuso di mille sottili vibrazioni. Una scena che ti riempie di tenerezza. Qualcuno nel casolare sta forse aprendo una finestra per godersi il velo del sole. Un prodromo di primavera?

Questo quadro di Luciano Buso - come tanti altri - è esso stesso una finestra aperta alla Natura. Vi si respira aria pura. La pittura riflette la realtà ma nel contempo, senza forzature, con gentile pudore, la interpreta e dolcemente la travisa: la rende, cioè, stato d'animo. Quella luce diventa un segno di ottimismo, di speranza. Quegli alberi mi paiono presenze assopite, pronte a risvegliarsi ai primi tepori della nuova stagione. Quel casolare è il rifugio di una intimità tanto ricercata e desiderata. E quella neve che scivola dagli occhi si fa tenera coltre di un letto d'amore... Illusioni? Artefici di quel giuoco di prestidigitazione che è la pittura? Sì e no. L'artista mi propone una scena, mi indica un canovaccio; ma sono io che la ravvivo con il mio sentimento. Quel quadro esce anche dal mio cuore.

Qualche anno fa mi chiedevo provocatoriamente: chi ha paura oggi, di Monet? Intendevo quella sorta di rigetto culturale che provoca la buona pittura legata alla natura.: buona pittura come buon sentimento. Certo, Monet e gli Impressionisti sono più che mai sulla cresta dell'onda: toccano i record alle aste di Londra e New York, sono il vanto dei più grandi musei, tutti li ammirano. Ma pochi osano accostarsi a quel modo di dipingere che vuol essere un atto d'amore nei confronti della natura. Perché? Il nostro mondo, così nevrotico e inquinato, ha un senso di colpa nei confronti della natura. L'uomo l'ha troppo violata, mortificata, avvilita. E la natura, silenziosamente, si vendica alterando l'equilibrio biologico del pianeta. Ora cisi sciacqua la bocca con termini come ecologia; rispetto dell'ambiente; cultura del territorio; ma il dramma si aggrava. Monet è ancora lontano dal nostro spirito. Molti cominciano a pensare che bisogna tornare alle fonti primarie di un rapporto che investe tutta la società e investe (perché no?) anche l'arte: anche la pittura.

Ben sa Luciano Buso che da quasi un secolo l'arte si è sadicamente divertita a deformare, strapazzare, cancellare la natura. Il corso delle avanguardie storiche, dal Cubismo e dall'Espressionismo in poi, ha avuto meriti enormi nel rinnovamento del linguaggio pittorico, cioè nell'apertura di nuove strade alla cultura della forma, ma nel contempo è stato un atto di presunzione dell'individuo. Ha creduto di portare al vertice l'intelligenza creatice dell'uomo, sovvertendo le regole eterne della natura. I guai li vediamo oggi davanti ai nostri occhi. I buchi e i tagli di Fontana stanno diventando le penose ferite della natura violata. Si sono voltate le spalle non soltanto ai buoni sentimenti, ma anche alla tecnica, cioè al supporto di quello specifico che è la pittura. Ci si è persi nella vertigine di una sperimentazione ad ogni costo. Si è tramutata quella che era una splendida avventura dell'intelletto in un affannoso volo a bassa quota.

Mi immagino luciano buso mentre sui colli asolani o più in là, verso le Prealpi bellunesi, cammina per i campi e i declivi con il suo cavalletto alla ricerca di un angolo da cui ritrarre la bellezza della natura. Indugia, si ferma, coglie a volo una prospettiva, un giuoco di alberi o di case, u npunto felice da cui far scattare la sua emozione di artista. Poi, all'improvviso, la decisione di cominciare l'atto d'amore. Ecco che ha già riservato i suoi teneri colori sulla tela.

Nello stesso tempo - continuo ad immaginare - in cento, in mille altre parti l'uomo continua a sporcare la natura. Un velo i caligine scura avvolge il mondo. Una sorta di frenesia modifica l'equilibrio del pianeta, riversandovi miriadi di macchine spetecchianti, milioni di tonnellate di cemento, fiumi di liquidi velenosi, Lui, il pittore, continua imperterrito nel suo colloquio con le colline e gli alberi. Imperturbabile. La suo operazione mi appare come quella di un poeta saggio, che crede ancora, malgrado tutto, nella bellezza e nella bontà del creato. E' lui lun elemento non omogeneo al mondo? O non è il segno di una verità che aspetta di essere sacrosantamente ripristinata?

Non sembrino queste osservazioni al di fuori del discorso che qui vado facendo sulla pittura di Luciano Buso. Esse ne sono la premessa indispensabile. Mi pare, anzi, che questo amore georgico ed elegiaco che si va riversando nei colori sulla tela sia il simbolo di qualcosa che, nel nostro pianeta, sta cambiando. Si schiaccino pure i bottoncini del nostro telecomando quotidiano; si aprano le prime pagine dei giornali. Qualcosa sta accadendo che ieri appariva impensabile. Cadono muri che dividevano culture; crollano statue di bronzo che parevano eterne; si sciolgono ideologie che presumevano di cambiare il mondo. Una forma di disagio, di inquietudine, si diffonde dovunque. Ci si rende conto che, dopo tante corse in avanti col paraocchi, si è perduto l'orientamento. Nelle stanze della politica e dell'economia è entrata un'onda di incertezza, di paura. I più saggi intuiscono che occorre dare una sterzata: tornare ai valori; riprendere la rotta di una saggezza suffragata dalla storia. Si riprende a guardare alla lezione della natura; si riguarda il passato dell'umanità per coglierne i giusti indirizzi.

Nell'arte e in partiicolare nella pittura, succede la stessa cosa. Qualcuno ha battezzato come postmoderno il nostro tempo. Significa che i falsi modernismi sono finiti: le loro code sono già diventate più ridicole che inutili. La pittura torna a guardare la natura. La guarda con occhi nuovi, consapevoli del dramma presente. La guarda con ripristinata fiducia.

Il percorso artistico finora seguito da Luciano Buso ha una sua coerenza interna: una sua linea che è nella vita oltre che nella pittura. Già poco dopo i vent'anni egli ha scelta la strada di una serietà professionale: a costo di disagi, di sacrifici. ha tenuto duro, voltando le spalle a certe facili seduzioni. La sua fede, sorretta dall'ottimismo di una moglie esemplare, ha vinto molti ostacoli. Oggi, pur ancora giovane, i riconoscimenti lo confortano. Già decine di mostre personali sono alle sua spalle. Nel suo atelier ai piedi di quelle gentili colline asolane cariche di illustri memorie, egli continua a lavorare con serietà, senza deflettere dai suoi principii. E' il tempo, quindi, di riassumere un cammino di almeno tre lustri, offrendo una testimonianza, che alla fine, diventa anche un atto d'amore.

Luciano Buso ha scelto da sempre la natura come sua maestra. L'osservazione costante del mutar di forme e colori, dei cambiamenti d'aria e di atmosfera, del girar delle ore e delle stagioni, del trascolorare degli alberi, del variare continuo della luce, è una costante imprescindibile del suo lavoro. Niente viene lasciato al capriccio. La pratica dell'en plein air è diventata per lui fondamentale. E' sul posto che si instaura il colloquio con la natura, anche se all'interno dello studio possono essere più agevolmente definiti certi particolari o sviluppati i bozzetti. La fortuna gli ha concesso di abitare in una delle zone più belle del nostro Paese, dove la natura si fa gentile e affabile; e dietro di essa fanno capolino i sogni colorati di Giorgione e Tiziano, di Veronese e di Tiepolo. L'antica barchessa di Altivole riporta ai tempi aurei della Regina Cornaro, mentre poco distante la villa di Maser disegna nel verde la più pura delle geometrie dello spirito. Qui la natura, come forse in nessun altro luogo del mondo, è amica del pittore.

Ma, si sa, il tirocinio tecnico deve avere anche delle basi di apprendistato. Luciano Buso ha percorso, se così si può dire, due strade parallele, soltanto in apparenza dissimili. La prima è quella della tradizione veneta: iltonalismo soffice che da Guglielmo Ciardi coglie il senso di immersione panica nella natura e dalla direttrice Cima-Piccolotto l'adesione (tecnica e sentimentale) alla tipologia del paesaggio bellunese. Esser veneti in pittura significa cogliere le trasparenze della luce, l'armoniosa fusione dei colori, la freschezza di un tocco sempre aereo e mobile. Tutto ciò, è chiaro, proviene anche e soprattutto da un lungo passato, che arrivi magari a Giovanni Bellini e a Giorgione: dove la civiltà veneta diventa civiltà del gesto contemporaneo; della spontaneità naturale, quindi del colore, del tono luminoso, della fuzione della luce.

L'altra strada è quella che è venuta a Buso dalla frequentazione di un pittore toscano, Claudio Domenici e dai contatti con gli ambienti post-macchiaioli toscani. Da Firenze all'isola d'Elba questa apertura culturale è stata benefica per l'allora giovanissimo pittore veneto, come lo fu, nel 1867, per Guglielmo Ciardi quando andò ad "abbeverarsi all'Arno" e vi tornò rinvigorito di feconde esperienze. La dimensione toscana è quella di una solidificazine del fenomeno visivo: cioè un costruire più sulla struttura formale che sullamera impressione visiva. E' un'esperienza per certi versi opposta a quella veneta, e anche ad essa complementare.

Ma, al di là di una impostazione che richiama la tradizione ottocentesca, sta un'abilità che sorprende. Buso lavora all'interno di una scala di valori ben consolidata dal tempo, quindi al di fuori dai trucchi del mestiere e dai tanti sotterfugi cui si appigliano in genere i pittori suoi coetanei. Non c'è alcuna sofisticazione nella materia pittorica. La pennellata scorre limpida e pulita. Un tocco morbido, preciso, mai arzigogolato, mai affaticato. La freschezza guida la mano dell'artista. Si ha l'impressione che l'immagine si sciolga con assoluta spontaneità, nell'alveo di una correttezza rappresentativa che si staglia con una puntualità che colpisce, Nessuna smagliatura nella trama; nessuna stonatura nel concerto armonioso. Eppure se si guarda da vicino la pittura, essa appare sempre estemporanea, fluida; come se nessun pentimento mai intervenisse. Tutto questo porta ad un declinazione sinfonica dell'immagne: si percepisce l'unità dell'atmosfera, che è anzitutti unità di accento tecnico. Ogni particolare obbedisce al nexus rerum che compatta e serra la composizione: i particolari si inseriscono nel generale concerto.

Una tale impressione deriva anche dall'uso sapiente e sensibile del colore-luce. Gli accordi sono sempre tonali, rispondono cioèad una calibrata gradazione e armonizzazione delle tinte. La profondità è ottenuta attraverso la luce, non attraverso la concettualizzazione prospettica. Buso ama le tinte sui bruni caldi, le ocre, i gialli smorzati, in cui si inseriscono i rosa teneri o gli azzurri appena velati; ma sa anche lavorare sui toni freddi, quindi su certi grigi perlacei che vengono smorzati nei verdi marci e, ancora nei celesti sottilmente sgranati. Dipende dal timbro sentimentale che egli vuole inserire nel dipinto, oltre che dal momento atmosferico.Così i soggetti primaverili si staccano nettamente da quelli autunnali; e anche in certi particolari o negli interni con nature morte la luce ha sempre un suo gradiente preciso; che è fenomeno visivo e, insieme, dimensione spirituale. Il passaggio dalle vedute grandangolari della campagna ai vasi di fiori, alle cacciagioni, ai girasoli, ai cespi di cardi, alle zucche, avviene pertanto in modo morbido, come se ogni centimetro quadrato della pittura fosse avvolto da un dolce velo che smorza le crudezze e quasi smaterializza l'essenza della pittura riportandola in una specie di sogno ad occhi aperti. E' qui che la magia della luce opera la trasfigurazione: essa decanta l'oggetto, liberandolo dalle scorie e immergendolo in un bagno che è anche, essenzialmente, sentimentale.

Splendidi sono, in particolare, certi paesaggi che si aprono come larghi canti sinfonici. Le case e gli alberi, i cespugli e i covoni, i filari di viti e le stradine, magari l'arcata di un fienile o una tela stesa al sole; la sfumatura lontana di un colle o l'intreccio di rami in primo piano: tutto si inserisce in una trama che nasce sì dalla visione naturale, cioè dal fenomeno ottico, ma nel contempo si fa precisa struttura, congruenza di linee e di forme, composizione bilanciata e armnica. Specie le vedute con la neve hanno all'interno di un tale equilibrio che rimanda ad una concezione storica della civiltà veneta, dove senso e intelletto, natura e geometria, si compenetrano e fondono. La resa degli effetti di luce e ombre diventa, così, una forma musicale di raccordo che si avvicina agli accenti vivaldiani. Ma anche laddove il pittore si trova di fronte ad una resa pittorica più difficile, come nel caso di scorci con betulle o altri alberi, la pulizia del tocco scinde verde da verde, giallo da giallo, facendo vibrare con cristallina cadenza i particolari delle mille foglie che si sovrappongono. E' qui in questi passaggi sottili di tono, che l'abilità si unisce alla sensibilità. Nessuna fastidiosa sovrapposizione, nessuna smagliatura, nessuna forzatura timbrica. La stessa impressione si coglie nelle nature morte, specie quelle più tonali con cardi, pannocchie, girasoli, zucche. Qui la delicatezza dei rapporti tra grigi e bruni, con l'inserimento di lievissimi violetti o rosa o ocre dorate, rende un clima di estatico abbandono. E' un canto che si scioglie fra filamenti e macchioline, tocchi leggeri e arabeschi lontani: quasi una dimensione metafisica dell'esistente. Non ha importanza ciò che viene rappresentato: conta soprattutto quel "clima" sfocato di nostalgia, di abbandono elegiaco, di incantamenti dei nostri pensieri.

A questo punto è inutile la consueta imbarazzante domanda: fino a che punto la pittura di Luciano Buso rappresenta l'attualità del nostro tempo? E' il concetto stesso di attualità che sgretola, che finisce per non avere più senso. Se guardiamo a tutto ciò che l'uomo costruisce, non poassiamo non convenire che esso ha sempre in se una caducità immanente: che è il destino di un consumo sempre più effimero. Ma se invece guardiamo allo svolgersi degli eventi naturali, scopriamo che essi seguono un'altra dimensione: è quella del tempo ciclico, cioè della ripetizione nel rinnovamento. ad ogi primavera spuntano foglioline sugli alberi che sono sempre diverse ma anche sempre le stesse. Un pittore come Luciano Buso, vicino più alla spontaneità della natura che alla progettualità dell'uomo, rovescia le regole imposte dalla moda: diventa inattuale in quanto la sua prospettiva ripudia il falso concetto di attualità.

Ci si rende conto, in altre parole, che la novità linguistica cede il passo alla verità biologica. Rifiutando la corsa verso l'inedito, la pittura di Buso accoglie la ciclicità della natura, adagiandosi nel suo alveo e da esso traendo una forza che la spinge verso i lidi di una universalità. Niente ottocentismi, quindi; e nessuna paura di ripetere Monet. Il fiorire di un albero non subisce alcuna datazione cronologica. Così, questa pittura così diversa dal panorama tecnologico del nostro tempo, così aliena da ogni macchinismo, si presenta nella sua purezza con ingenuità naturale: essa ha il sapore del buon pane casareccio, del vino non fatturato, della frutta appena colta e non contaminata. forse che questa non è un'autentica dimensione culturale? Forse non è lecito il desiderio che noi sempre andiamo verso tutto ciò che sia genuino e semplice? Di fronte alle ombre paurose dell'inquinamento, ai fumi acri emanati dai pozzi petroliferi della nostra follia, allo smog che cala come unacappa di piombo sulle nostre città, l'esposizione all'aria pura è qualcosa di più che un velleitarismo poetico. Ecco perché questi quadri di Buso sono, come dicevo, "biologicamente veri".

In quanto al metro di valutazione dei valori intrinseci alla pittura, niente paura: non siamo agli esorcimi critici e alle fumisterie pseudo-avanguardistiche. Siamo, piuttosto, dentro un sistema che ha lunghe radici nella storia. Si pensi alla grande linea del paesaggismo moderno europeo: dalla "Tempesta" di Giorgione alla "Veduta di Delpht" di Vermeer, e via via attraverso Guardi e Corot, Turner e Constable, per arrivare magari (in casa di noi veneti) a Ciardi o a Dalla Zorza o a Barbisan. L'estasi dell'uomo di fronte al miracolo della natura è sempre la stessa, una sorta di simbiosi, quindi un dialogo affabile, non certo una orgogliosa supremazia intellettuale. Certo, ogni artista si esprime a suo modo: diciamo che ha uno stile inconfondibile. ma proprio questa continuità nel tempo e fuori dal tempo, ci induce a cosiderare nel dovuto rispetto chi alle regole auree si adegua e non osa sovvertirle. Luciano Buso è tra questi: nella sua umiltà che è consapevolezza dei limiti ma anche trensione verso i valori.

Torno a rivedere quel quadro con il casolare sul colle. La neve sta già sgelandosi. Gli alberelli rinsecchiti sentono dentro di se una spinta che tra poco li toglierà dal letargo invernale. Quella luce rosata segna il tramonto che s'avvicina. Ma non c'è malinconia intorno: c'è la serena consapevolezza di una vita radicata perfettamente nell'alveo della natura. Luciano Buso ci ha dato, con questo e con altri suoi quadri, un messaggio di bellezza e anche di fiducia. E' il viatico che ci offre l'arte nei perigliosi anfratti dell'esistenza quotidiana.

Paolo Rizzi, Dicembre 1991.